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Channel: golfo di Aden – Pagina 93 – eurasia-rivista.org
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Yemen: un “cambiamento” per tornare al passato?

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In questo momento l’attenzione della comunità internazionale è rivolta verso la Siria, ma la situazione in Yemen non tende a migliorare, e le incertezze e le divisioni continuano a peggiorare le condizioni di un paese logorato da divisioni e guerre.

 

Dopo mesi di rivolte che hanno causato all’incirca più di 2.000 morti e 20.000 feriti (1), la società yemenita si trova ancora nel baratro senza aver ottenuto effettivi cambiamenti che possano condurre al miglioramento delle condizioni di vita. Anzi, sotto certi punti di vista la situazione è addirittura peggiorata.

 

Il presidente ‘Ali Abdullah Saleh, dopo trentatré anni di potere, nel novembre del 2011 ha firmato a Riyad, con la mediazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, un accordo in base al quale ha trasferito i poteri al suo Vice, ‘Abd Rabbih Mansur al-Hadi, che ha consolidato la carica di presidente provvisorio durante le elezioni presidenziali del 21 febbraio 2012, presentandosi come candidato unico.

 

Una figura scelta per la transizione, che guiderà il paese per i prossimi due anni, e che ha ricevuto il consenso della maggioranza, ma soprattutto dell’opposizione parlamentare, dei militari e di una parte dei rivoluzionari, per guidare il paese fino alle prossime elezioni.

 

Ma è davvero una scelta, questa, che può portare a un vero cambiamento o solo una mossa politica per cercare di calmare le acque?

 

Lo Yemen, il paese arabo più povero, nonché uno dei più poveri al mondo, è una società tribale e conservatrice con un numero elevatissimo di analfabeti e disoccupati che si ritrovano a dover vivere con meno di 2 dollari al giorno (2).

 

Il paese negli ultimi anni è stato indebolito su più fronti da molteplici problemi sviluppatisi al suo interno senza essere stato in grado di fronteggiarli adeguatamente ed è stato consumato dalle violenze: il movimento secessionista del Sud, le ribellioni dei gruppi zayditi del Nord (3), le attività delle cellule terroristiche, soprattutto quelle affiliate al AQAP (Al-Qâ‘ida fî Jazîrat al-‘Arab / Al-Qaeda nella Penisola Araba), la lotta fra le tribù e le divisioni tra i militari, hanno trascinato lo Yemen in una guerra civile.

 

Il movimento separatista del sud (4), che raggruppa varie fazioni antigovernative, nasce durante la guerra civile del 1994 come conseguenza dell’unificazione del paese tra la Repubblica Araba dello Yemen del Nord e la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud nel 1990.

Dopo la formazione del governo, che vede al potere il presidente ‘Ali Abdullah Saleh (5), gli accordi non vengono rispettati e il potere centrale si stabilisce a San‘a, la capitale del Nord.

In questi anni il rais Saleh approfitta del suo potere per introdurre nuovi articoli nella costituzione che gli permettono di consolidare sempre più il predominio del Nord e indebolire il Sud non solo dal punto di vista politico ma anche economicamente con la mancanza di distribuzioni eque ed investimenti.

 

Al nord, i seguaci di al-Houti da anni ormai combattono una guerra contro le forze governative che è costata la vita a molte persone, pretendendo l’autonomia della regione di Sa‘da.

Questa fazione sciita, nel 1994, fu armata proprio dall’ex presidente yemenita Saleh, affinché contrastasse il diffondersi delle scuole wahhabite che nel nord dello Yemen si stavano allargando grazie ai finanziamenti dell’Arabia Saudita.

Nonostante le offensive lanciate dal governo negli ultimi anni contro i seguaci di al-Houti, il problema non ha mai cessato di esistere e ha inasprito la contesa tribale.

 

Questa regione si è vista indebolire, soprattutto negli ultimi anni, anche dal fenomeno del terrorismo, Al-Qâ‘ida su tutti, che ha trovato terreno fertile per espandersi e imporre le sue idee all’interno di una società logora e molto conservatrice, è uno dei problemi principali.

Oltre al fatto che, il suo fondatore Osama Bin Laden è originario dell’Hadramawt, quest’organizzazione si è stabilita nel territorio yemenita rafforzandosi e conquistando determinate aree del paese approfittando della disorganizzazione del governo e le sue difficoltà nel controllare i governatorati. Ormai è un dato di fatto per tutti gli analisti che l’organizzazione terroristica, indebolita in altri stati, si sia “trasferita” stabilmente nello Yemen dove ha avuto l’opportunità di “rinascere”: gli attacchi costanti e la lotta al potere corrotto fanno di questa organizzazione uno dei problemi più grandi di questa regione.

 

Il governo, con l’appoggio degli Stati Uniti, soprattutto negli ultimi mesi ha lanciato delle offensive (uccidendo anche il capo dell’organizzazione Awlaki lo scorso settembre) per cercare di fermare l’avanzata dei guerriglieri che stanno prendendo il controllo di alcuni governatorati. Addirittura, secondo il quotidiano saudita “al-Watan” (6), al-Qâ‘ida dopo aver conquistato le province di Abyan, Lahaj e Shabwa, visto il vuoto di potere lasciato dalle autorità di San‘a, sarebbe riuscita ad offrire alla popolazione anche una serie di servizi come acqua ed elettricità che il governo centrale non era in grado di fornire.

La paura che l’AQAP, con la sua “politica” di favori verso le tribù, avanzi indisturbata e converta questo territorio in una vera e propria “base-stato”, trasformando la regione in una “nuova Somalia”, è forte; infatti proprio nel sud del paese i secessionisti hanno stretto legami con clan vicini all’organizzazione terroristica.

Proprio per questo motivo, recentemente, gli Stati Uniti hanno chiesto al governo yemenita di poter incrementare le attività dei droni (7) nel paese, anche se le operazioni statunitensi, benché in via non ufficiale, vadano avanti già da almeno due anni.

 

La lotta tra le tribù, che per certi versi ricorda quella libica, ormai va avanti da decenni e nessuna è disposta a cedere ai ricatti dell’altra.

Le manifestazioni popolari contro l’ex presidente Saleh nella “primavera yemenita” hanno visto schierati alcuni dei leader più importanti delle tribù dei Baqil e degli Hashad, come lo sceicco Husayn ibn Abdullah al-Ahmar, fratello di Sadiq, capo degli Hashad, che lanciando un segnale forte si è dimesso dal partito del Congresso ed passato all’opposizione.

La presa di posizione di queste tribù ha messo in difficoltà l’ormai ex presidente e si è scatenata una lotta per il territorio che vede gli Hashad contro i Baqil, poi gli al-Qahtan e gli al-Obeida contro gli al-Damashqa, fedeli al presidente e presenti in tutti i ruoli-chiave della sicurezza.

 

Anche i militari negli ultimi mesi erano stati divisi tra lealisti e disertori unitisi alla rivolta contro il regime chiedendo una riorganizzazione del sistema.

 

Ma a distanza di mesi, nonostante Ali Abdullah Saleh abbia ceduto le redini al successore al-Hadi, l’ex presidente continua ad essere una presenza davvero influente nella vita socio-politica ed economica del paese. Oltre al fatto che, lui stesso, dopo essersi ricoverato negli Stati Uniti per ricevere delle cure, ha promesso di ritornare nel paese a guidare il suo partito, il Congresso Generale del Popolo, riesce a controllare ancora le posizioni strategiche dello Yemen.

Suo figlio maggiore, Ahmad Ali Abdullah Saleh, predestinato a succedergli al potere, è ancora a capo della Guardia repubblicana e delle forze speciali, ma non è l’unico visto che altri componenti della famiglia sono rimasti a capo di varie istituzioni: il nipote dell’ex Rais, Yahya Mohammed Abdullah Saleh è a capo delle Forze di sicurezza centrali; Tareq Mohammed Abdullah Saleh, altro nipote, alla guida della Guardia personale del Capo di Stato; Ammar Mohammed Abdullah Saleh, vicedirettore della Polizia; oltre al fratellastro, che è direttore dell’ufficio del Comando supremo delle forze armate.

Anche per quanto riguarda i settori dell’ economia il clan dei Saleh ne controlla i movimenti, come ad esempio le linee aeree della al-Yemeniyya, la società del tabacco o le compagnie di gas e petrolio, fino ad arrivare al Ministero della Pianificazione e della Casa di Sviluppo.

 

L’affluenza alle urne – secondo fonti del Ministero Yemenita – come riporta il quotidiano francese “Le Figaro” (8), è stata considerevole, nonostante il boicottaggio di buona parte della popolazione, e questa scelta ha trovato sostegno anche dall’esterno, come gli Stati Uniti, pronti a sostenere economicamente lo Yemen o l’Arabia Saudita, che promette donazioni petrolifere al paese.

Nonostante il voto per al-Hadi sia considerato da molti come una speranza per il paese, per tanti altri yemeniti si tratta solo di un ricambio e non di una vera e propria transizione, vista l’elezione a candidato unico, definita antidemocratica, e la volontà dell’ex rais Saleh di continuare a governare il paese sotto traccia.

 

La situazione del paese rimane delicata e i problemi dello Yemen rimangono gli stessi; con una transizione davvero precaria la popolazione yemenita spera in un domani migliore che stenta ad arrivare, mentre la politica sembra essere sempre la stessa.

Gli aiuti economici dall’esterno sicuramente possono fornire il loro contributo per risollevare la regione e la fiducia riposta nel nuovo presidente al-Hadi, considerato da molti “l’uomo della democrazia”: potrebbe essere un inizio, ma tutto questo è sufficiente a cambiare un paese deteriorato dai conflitti?

 

In tutti questi anni, l’ex Rais, ha centralizzato tutto il potere nella capitale San‘a perdendo il contatto con la realtà del resto del paese e permettendo a fazioni interne ed esterne di indebolire la regione, senza dimenticare che, a livello geografico, lo Yemen è davvero difficile da controllare logisticamente, favorendo la riorganizzazione di al-Qâ‘ida e dei gruppi estremisti, che sono così riusciti a conquistare di fatto vari governatorati senza grosse difficoltà grazie ai favori delle tribù.

 

La cosa importante adesso deve essere la riorganizzazione del paese e delle sue istituzioni, su tutte le Forze Armate, fondamentali per combattere nei conflitti interni ed evitare che i malumori emersi all’interno dell’esercito possano indurre i militari a defezioni, favorendo le organizzazioni terroristiche.

 

Nonostante siano necessari molti anni, per lanciare un chiaro segnale di cambiamento devono partecipare al processo di democratizzazione tutte le tribù, trovando un compromesso in modo da favorire la crescita del paese ed iniziare a fermare l’avanzata delle organizzazioni terroristiche.

L’esclusione di qualche clan significherebbe l’inasprimento della situazione e l’ulteriore indebolimento del sistema, che andrebbe a deteriorare ulteriormente la situazione di un paese oramai esausto.

 

 

 

 


NOTE:

 


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